ovvero il problema della grande dimensione

‘Superata una certa scala, l’architettura assume le peculiarità della Bigness.
[…]Di tutte le possibili categorie, quella della Bigness non sembrerebbe meritare un “manifesto”sminuita come questione intellettuale, pare essere in via di estinzione, come dinosauro, per la sua goffaggione, lentezza, mancanza di flessibilità, problematicità.
Teoremi […] 3. Nella Bigness, la distanza tra nucleo e involucro cresce al punto che la facciata non può più rivelare ciò che avviene all’interno. L’esigenza umanistica di «onestà» è abbandonata al suo destino: architettura degli interni e architettura degli esterni divengono progetti separati: una confrontandosi con l’instabilità delle esigenze programmatiche e iconografiche, l’altra portatrice di disinformazione offrendo alla città l’apparente stabilità di un oggetto.
Là dove l’architettura pone certezze, la Bigness pone dubbi: trasforma la città da una sommatoria di evidenze in un accumulo di misteri, Ciò che si vede non corrisponde più a ciò che realmente si ottiene.
4. Tramite la sola dimensione, tali edifici entrano in una sfera amorale, al di là del bene e del male. 5. Tutte insieme, queste rotture – con la scala metrica, con la composizione architettonica, con la tradizione, con la trasparenza con l’etica – implicano la rottura definitiva, quella radicale: la Bigness non fa più parte di alcun tessuto. Esiste al massimo, coesiste. Il suo messaggio implicito è: fanculo il contesto.
Massimo
[…] Solo per mezzo della Bigness, l’architettura può dissociarsi dagli esausti movimenti ideologici e artistici del modernismo e del formalismo, per riacquistare la sua strumentalità come veicolo di modernizzazione.
Inizio
[…] Attraverso la contaminazione piuttosto che attraverso la purezza, attraverso la quantità piuttosto che la qualità, solo la Bigness può favorire autenticamente nuove relazioni tra entità funzionali che ampliano la propria identità, invece di imitarla.
Team
[…] La Bigness è impersonale: l’architetto non è più condannato al divismo.
[…]Al di là della cifra stilistica personale, la Bigness significa resa alle tecnologie, agli ingegneri, agli appaltatori, ai realizzatori, ai politici, ad altri ancora. Promette all’architettura una sorta di status post-eroico, un riallineamento alla neutralità.
Baluardo
[…]Se la Bigness trasforma l’architettura, la sua accumulazione genera un nuovo tipo di città. Lo spazio aperto della città non è più un teatro collettivo dove “qualcosa” accade: non resta più nessun “qualcosa” collettivo.
[…] Non solo la Bigness è incapace di stabilire relazioni con la città classica – al massimo può coesistere con essa […] La Bigness non ha più bisogno della città: è in competizione con la città; rappresenta la città; rappresenta la città; si appropria della città; o, ancor meglio, è la città.
[…]Bigness = urbanistica contro architettura.
[…] La Bigness, per la sua totale indipendenza dal contesto, è la sola architettura che può sopravvivere, che può addirittura sfruttare la condizione di tabula rasa ormai globale.[…]
[…]A dispetto delle sue dimensioni è modesta.
[…]La Bigness è l’ultimo baluardo dell’architettura – una contrazione, una iper-architettura. I contenitori della Bigness saranno i punti di riferimento in un paesaggio post-architettonico – un mondo da cui è stata raschiata l’architettura[…]
[…]La Bigness lascia il campo al dopo architettura.’

testo da: "Junkspace" Rem Koolhaas, Quodlibet – Macerata 2006. titolo originale dell’articolo "Bigness or the Problem of Large" (1995)

bigness
Immagine da: S,M,L,XL

Questa l’ultima “avanguardia” personale di fine secolo passato. Il manifesto della Bigness di Rem Koolhaas, più che muoversi nella tabula rasa sembra essere premonitrice della condizione cinese e del sud-est asiatico attuale. Indubbiamente affascinante, quando si spinge nelle pieghe della contaminazione/ibridazione con un senso di deriva verso la tecnologia, quando immagina un paesaggio da fantascienza e dell’abbandono della dimensione umana del progetto. Certamente in netto contrasto con la scuola di pensiero europea e ancora di più italiana. E’ possibile abbandonare il contesto, dove oramai il terreno è saturo e costellato di forti identità? In definitiva si teorizza l’assenza di forma generalizzata a favore della coesistenza di più sistemi che diventano loro stessi città, quindi in termini contemporanei informi, impossibili da controllare ed entropici.


COMMENTS / 2 COMMENTS

sono contento che qualcuno riporti su internet parti importanti di questi saggio, penso che molti studenti di architettura usino la falsa bandiera del “fuck context” senza sapere veramente di cosa Koolhaas parli, nn avendo magari letto il suo saggio o deliberatamente ed ironicamente decontestualizzando la frase dal saggio stesso, nel caso l’abbiano letto.

Marco on Nov 18 07 at 20:12

Cerco blog dove si parli e si commenti questo saggio

Anonimo on Giu 03 08 at 01:22
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